Recensione del volume Grandi e piccole verità ad uso quotidiano a firma di Rocco Familiari

Recensione del volume Grandi e piccole verità ad uso quotidiano a firma di Rocco Familiari

LE GRANDI E PICCOLE VERITA’ A USO QUOTIDIANO DI GIOVANNI ANTONUCCI

di Rocco Familiari

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Credevo impossibile recensire questa seconda raccolta di aforismi di Antonucci, avendo detto tutto quello che potevo, o quasi, sulla prima, Bolle di sapone, edita qualche anno fa da Pagine. Eppure, una volta cominciata la lettura, mi sono accorto che di spazio ce n’era, non soltanto perché sono diversi i “detti memorabili” raccolti sotto il titolo di Grandi e piccole verità a uso quotidiano, ma perché diversa è l’impostazione. Con le Bolle il lettore era costretto a crearsi un proprio itinerario, essendo il metodo scelto dall’autore assai simile a quello descritto dal suo maestro Giovanni Macchia (nella splendida introduzione alla raccolta “I moralisti classici, edita da Garzanti nel 1960) a proposito di un grande scrittore di aforismi, La Bruyère: “non disdegna né la massima, né il ritratto, né l’impressione, né l’osservazione delle immagini artificiali e transitorie e mette tutto insieme senza curarsi del disegno generale”.

In questo nuovo, elegante volume, edito da Universitalia, l’autore si preoccupa invece di fornirci proprio un “disegno generale”, una precisa mappa, avendo egli la pretesa, niente affatto… pretenziosa, di orientare la nostra fruizione. Da qui la scelta di raggruppare gli aforismi, suoi e di altri pensatori, per tema, coerentemente con l’intenzione di un libro che vuole essere un manuale d’“uso quotidiano”, come recita la seconda parte del titolo. Manuale, aggiungerei, per tenere in allenamento il cervello… e, da “massacratore di miti”, per citare ancora Macchia, sfatare una serie di luoghi comuni che infestano, come le erbacce, ogni aspetto del vivere.

Non ho fatto riferimento al grande francesista per caso. La verità è che con questa raccolta Antonucci si iscrive anche lui nella onorata cerchia dei “grandi moralisti”.

E’ abbastanza singolare che, essendo costoro nati “quando si è persa la fiducia nell’uomo” (sempre Macchia), oggi, che quella fiducia non è certo aumentata, ma semmai fortemente diminuita, sembrano scomparsi. Del resto, già Moravia e Zolla, che curarono il sequel di quel fortunato volume (“I moralisti moderni”, sempre nel ’60 e sempre per Garzanti) faticarono a trovare dei nomi che potessero incarnare il modello. Ma forse era sbagliato l’approccio: il moralismo non si fonda, contrariamente a quanto sostengono i due intellettuali (che più diversi non si potrebbe immaginare, lucido e razionale l’uno, cultore di scienze esoteriche l’altro), sul “disprezzo di sé e degli altri.” No, il moralista al massimo prova indignazione, ma, non avendo fiducia nei propri simili, mantiene un atteggiamento cinico, in fondo tollerante, verso gli altri e se stesso. Non pretende infatti di essere migliore, si limita a registrare il peggio. O, come dice ancora Macchia: “si limita a notare la contradditorietà dell’esistere, le luci e le ombre di tutto ciò che ha sotto gli occhi.”

Altrettanto singolare poi che nessuna delle due raccolte ricordate comprenda detti di Nietzsche e che quella dei “Moralisti classici” parta da Machiavelli, escludendo i grandi moralisti antichi (Seneca per esempio).

Il “moralista” Antonucci dà invece al filosofo tedesco, giustamente, lo spazio che merita, pur nell’economia generale di una raccolta che si muove su un amplissimo arco temporale e copre l’intero pianeta culturale, muovendosi disinvoltamente fra diversi livelli. Tanto per esemplificare, si va da Seneca appunto, al “Golia” Abelardo (quanti sanno che “goliardo” significava in origine essere seguace del “Golia” – per forza d’ingegno – Abelardo?) ad Achille Campanile, da Dante a Ceronetti, da Cicerone a De Crescenzo o Trilussa.

Senza mai rinunciare allo stile che gli è proprio anche come commediografo – Antonucci ha alle spalle una prestigiosa carriera, oltre che di docente, saggista e critico, teatrale, letterario e finanche di arte figurativa, ma è pure un affermato autore – e cioè l’uso di un linguaggio colto ed essenziale al tempo stesso, capace però di graffiare quando occorra, pesca nell’immenso serbatoio della sua memoria di studioso e di frequentatore dei generi più disparati, quanto gli serve per lo scopo che si è prefisso: raccogliere suggerimenti preziosi, perle di saggezza, avvertimenti, dichiarazioni d’intenti, comandamenti, che diventano un godibilissimo e imprescindibile baedeker per aiutarci, senza troppi incidenti di percorso, nell’intricato mondo in cui un dio generoso e anche dispettoso ci ha messi a dimora.

Media, Politica, Economia e Finanza, Tecnologia, Scienza, sono i temi della prima parte, Religione, Giustizia, Cultura, Vizi e Virtù, Amore e Sesso, quelli della seconda. Vi è anche un utilissimo indice dei nomi per chi voglia andare… a caccia, sicuro di stanare subito la preda preferita.

Se si riuscisse a introiettarli tutti, sarebbero un formidabile strumento educativo. Ma, come pessimisticamente teme l’autore, citando Cechov: “ci sono mille stupidi per ogni persona intelligente”, per cui è cosciente che il suo sforzo risulterà purtroppo in larga misura vano.

Manca, nell’indice dei nomi, immagino per pudore, quello dello stesso autore, a cui sono da ascrivere molti, e molto efficaci, “detti memorabili”, che non sfigurano affatto accanto a quelli degli scrittori da lui citati.

Io vorrei soffermarmi solo su questi, scegliendoli nelle varie sezioni, con preferenza per quelli che esprimono con più forza l’intento “moralistico” (nell’accezione prima definita) di Antonucci.

Il volume si apre, riportando nella sezione Media una notizia di cronaca in sé non particolarmente eccitante: “pompiere recupera da un tetto un gatto morto che lo graffia al viso”. Lo cito perché esemplificativo di uno dei modi con cui Antonucci fa propri anche detti altrui, aggiungendo cioè una chiosa che fornisce una chiave di lettura del tutto originale, addirittura surreale, come in questo caso, la fulminante domanda: “prima o dopo?” Sembra di sentire echeggiare irresistibile la risata che, dopo un attimo di esitazione, la sapienza “teatrale” di Antonucci sa suscitare.      

In effetti il suo cotè teatrale affiora spesso, come in quest’altro: “la verità nei nostri media: così è (se vi pare).

Folgorante quello che apre la sezione Politica (la più estesa, a ragion veduta, pervadendo essa ogni aspetto dell’esistenza) : “un politico è un politico, due politici sono due politici, mille politici una iattura.” Insiste, per sottolineare la sua non esaltante opinione della politica, soprattutto dei politici, anche qui con un riferimento teatrale: “la commedia di Pirandello ignota a tanti nostri politici: Il piacere dell’onestà.

Geniale il modo in cui, utilizzando una “categoria” teatrale, riesce a far emergere il lato oscuro di una pericolosa corrente filosofica: “Il pensiero unico è un monologo di massa.”

Nella stessa sezione: “Chi semina vento raccoglie spesso voti.”

Citando Ibsen: “Nemici del popolo sono tutti coloro che non accettano il politically correct”.

Con sublime autoironia: “La vanità dei politici è superiore perfino a quella degli intellettuali.”

Con giustificata sufficienza: “Le metafore dei nostri politici sono quasi sempre calcistiche, perché il calcio è l’unica cultura che frequentano.”

Cartello segnaletico che andrebbe appeso in bella vista nei seggi elettorali…: “Coloro che parlano continuamente di bene comune mirano di solito al tuo bene privato.”

Avvertenza per gli ingenui: “Se i politici invocano la meritocrazia, è segno che hanno molti clienti da sistemare.”

Tranchant: “I politici sono bugiardi senza memoria.”

Allargando il campo di osservazione: “Senza radici i popoli, come gli alberi, muoiono”

Neppure l’esordio della sezione Economia e finanza  lascia adito a dubbi: “l’economia è la scienza più inesatta: sbaglia quasi sempre le sue previsioni “, “Gli economisti sono coloro che scoprono le crisi solo dopo che sono scoppiate”.

Ancora: “gli economisti scambiano, spesso e volentieri, le loro opinioni per verità rivelate”.

E la cosa è assai preoccupante dato che: “L’economia, ‘lugubre scienza’, come la definiva Carlyle, è diventata la protagonista delle nostre vite”.

Nella sezione Tecnologia, prevale l’allarme per il futuro dell’umanità: “L’errore della nostra società è credere che la tecnologia non sia un mezzo, ma un fine”. Come dire, Heidegger a Severino condensati in pochi lemmi.

Antonucci ha poca fiducia nella capacità dell’uomo di sottrarsi al dominio della tecnica: “La tirannia digitale crea un mondo di schiavi inconsapevoli”. Tanto più che: “La menzogna ha una forza dirompente quando è sorretta dalla tecnologia”.

Nella sezione Scienza il raffinato intellettuale Antonucci usa gli strumenti di cui dispone per mettere in guardia da facili confusioni: “Lo scientismo è la più opprimente ideologia della nostra epoca. Pretende di spiegare tutto: vita, copula e morte … nasconde che ogni nuova scoperta della scienza apre un nuovo mistero.”

“L’errore è la matrice della conoscenza.” Con formidabile capacità di sintesi, mette insieme un pensiero di Nietzsche e il principio-base della concezione del progresso scientifico di Popper.

Un’esclamazione di sconforto che tutti noi potremmo lasciarci sfuggire: “Che tragedia essere alla mercé degli algoritmi!”

L’autentica religiosità, che non è bigottismo, dell’autore, emerge dai pensieri raccolti nella sezione Religione : “I libri di teologia … sono quasi sempre opera di atei.”

“Le chiese di oggi sembrano garage, autogrill, stazioni di servizio”: qui è il critico d’arte che intuisce la degenerazione del contenuto attraverso quella della forma; così come in quest’altro: “I preti che cantano durante la messa canzoni pop sono l’immagine di una Chiesa che sta perdendo il senso del sacro.”

Nella sezione Giustizia è riportato, giustamente, un pensiero presente anche nella precedente raccolta e che personalmente ritengo esprima il profondo umanesimo dell’autore: “Un giudice non dovrebbe gioire nel condannare, anche quando ha la certezza che l’imputato è colpevole.”

Nella sezione Cultura, la più ampia dopo quella dedicata alla Politica, non certo perché subordinata a essa, ma perché la politica condiziona, purtroppo, tutto il resto, affiora la malinconia dell’intellettuale di fronte alla “perdita di senso” dell’arte contemporanea e all’impoverimento culturale generale: “La nostra è una cultura a perdere, non a costruire”; “L’arte contemporanea la si giudica dal prezzo, non dalla qualità.” Antonucci fa proprie la meritorie battaglie di uno dei pochi critici non subordinati al perverso intreccio delle tre “M”: Mercato-Musei-Massmedia, Jean Clair (e anche, a onor del vero, del nostro Sgarbi). Se viene in mente subito il titolo del famoso film di Fritz Lang, è un collegamento giustificato: quel mostruoso intreccio di interessi sta letteralmente “assassinando” (“M” stava per Mörder, assassino cioè), l’arte contemporanea, diventata sempre più, salvo rare eccezioni, un semplice, effimero, evento mediatico. D’altra parte è un effetto obbligato del fatto che: “La cultura di massa sfocia spesso e volentieri nell’ignoranza”.

Il volume si conclude con la sezione più dichiaratamente moralistica, Vizi e Virtù, ma anche qui Antonucci sa conciliare il tono solenne (alla Sarastro…) con il tocco leggero, o lo sberleffo: “Un uomo è  un uomo  quando è tale”, “La moda è tutto, il gusto nulla”, “Il cretino di oggi è più nocivo perché è un cretino collettivo.”

Il pensiero malinconico che conclude il “Breviario” o “Massimario” di Giovanni Antonucci è anche un accorato appello e, ne sono certo, l’espressione del suo più profondo sentire: “Non amare è la peggiore sventura che possa capitare a un essere umano.”

E’ la chiusa di un sapiente, di un umanista che, in quanto tale, è necessariamente un essere capace di amare.

Rocco Familiari

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